Seconda data Romana per Vasco Brondi nel tour che lo sta portando nelle principali città italiane per presentare “Un Segno di vita,” il nuovo album uscito appena un mese fa e che segna un apparente cambio di stile per l’artista, a tre anni dall’uscita di “Paesaggio dopo la battaglia”.
Personaggio di spicco nell’ambito musicale indipendente, il suo progetto Le luci della centrale elettrica è stato tra i punti cardine che hanno tracciato il sentiero per l’evoluzione di un certo pop cantautorale indipendente verso la nascita dell’ondata travolgente dell’indie.
Il giovane Brondi si è fatto notare sin dagli esordi per il suo stile di scrittura particolare, evocativo, scuro, perfetto connubio tra canzone e letteratura, e per il modo di esternare in musica le sue parole, tra parlato e urlato, con la sua voce a tratti disordinata e forse anche per questo efficace nel trasmettere l’urgenza delle emozioni descritte. L’album “Canzoni da spiaggia deturpata” è entrato di diritto tra i dischi fondamentali della musica italiana.
Artista poliedrico che si cimenta anche con varie altre forme espressive ha pubblicato vari libri per La nave di Teseo, e anche durante il concerto di ieri ha avuto modo di condividere testi e poesie tra un brano e l’altro.
Due date al Largo Venue di Roma, dicevamo, che hanno registrato il tutto esaurito. Ieri sera in apertura abbiamo potuto apprezzare il cantautorato noir minimalista di Umberto Maria Giardini, che dopo aver figurativamente e simbolicamente sepolto il progetto Moltheni, ha presentato i suoi brani, accompagnato dalla sua chitarra e da quel suo timbro di voce espressivo, senza pause, senza parlare, ma lasciando la sua firma sul foglio delle impressioni di questa serata memorabile.
Si sono accese poco dopo le luci sul palco per l’arrivo d Brondi: tenda rossa sul fondo e tubi luminosi sul pavimento, come richiamo alla copertina del nuovo album, e al tema della luce che illumina anche i momenti e gli spazi più bui, e della fiamma che arde di vita e creatività.
Ad accompagnarlo c’erano Andrea Faccioli e Riccardo Onori alle chitarre, Niccolò Fornabaio alla batteria, Clara Rigoletti alle tastiere e al violino, e Carlo Maria Troller (già visto con i Verdena) al basso.
Ad accendere letteralmente questo inizio è stato il brano Illuminare tutto seguito da Le ragazze stanno bene di cui sembra quasi essere il sequel. Sono il fuoco, gli astri, la luce, il filo conduttore di questa scaletta impeccabile, che alterna i brani attuali a quelli che hanno fatto la storia di questo artista, costruendo attorno a lui un seguito di seguaci affezionatissimi e in continua crescita. L’alternarsi dei brani più oscuri, espressivi e ruvidi degli esordi a quelli più recenti che sembrano condurre verso un respiro più pop e colorato, fa sì che non si senta uno stacco netto tra i due umori, che si amalgamano senza discontinuità in un discorso unico di poetiche affrontate semplicemente con una consapevolezza e un’attitudine diverse.
Nelle introduzioni e nei brani c’è molta vita di provincia, la gratitudine per quel vuoto che lascia spazio alla necessità di creazione, le nebbie che fanno immaginare un altrove possibile, la voglia di allontanarsi per poi poter restare. C’è il superpotere della vulnerabilità, la danza mistica delle parole cantate all’unisono da una sala talmente piena da far comprendere la non separazione tra noi e gli altri, tra noi e tutto ciò che ci circonda. Ci sono le citazioni colte, l’omaggi a Dalla e De Gregori in Cosa sarà, alle città. C’è un artista che con le lievi sbavature e imperfezioni della voce riesce a costellare il cielo di Roma di note così espressive da restarti nelle viscere per ore e giorni interi. Così potenti da aver inciso la propria impronta nella vita delle varie generazioni di ascoltatori che accorrono a ogni concerto.
Molto toccante la versione piano e voce di 40km, a raccontare lì dove “anche le rondini si fermano il meno possibile e la giovinezza è una corsa in Ciao sotto la pioggia”.
Ascoltare i testi di Vasco Brondi è anche un po’ immaginare i luoghi, come film che ci portano altrove e dentro di noi, osservando la realtà in una veste onirica e realista, che si illumina di speranza, perché anche nell’inferno si può trovare ciò che non è inferno e cercare di farlo durare più a lungo possibile.
Con la voce ormai spezzata dopo quasi due ore di concerto, Vasco trova comunque la forza di offrire due bis e immergersi tra il pubblico nel brano finale Nel profondo Veneto, quasi a fondersi con gli affezionati ascoltatori in un chiaro segno di vita, una celebrazione della bellezza dell’umanità che risuona nelle parole di Brondi. E come le onde di luce dorata che avvolgono il palco, la sua musica ha illuminato questa serata che ci auguriamo di rivivere presto nelle date del tour estivo.
Ringraziamo Viviana Tasco di Imarts
Foto e articolo di Ginevra Baldassari