Si è conclusa questo fine settimana la tredicesima edizione del festival Spring Attitude, ospitata per il terzo anno consecutivo dagli spazi all’aperto degli studi di Cinecittà.
Un’ambientazione magica che ha fatto da sfondo perfetto a quello che si potrebbe definire l’evento musicale più trasversale della Capitale. Un luogo che oggi non ospita il glamour delle star del cinema, ma l’energia di artisti che esplorano nuove vette sonore. Benvenuti nell’età contemporanea della musica, dove ogni nota è un atto di rinnovamento e ogni artista sembra volerci dire che l’attitudine è più viva che mai.
Anche quest’anno la proposta musicale ha abbracciato una varietà di stili alternativi, intercettando la sensibilità di un pubblico sempre più ampio anche a livello generazionale.
La kermesse si svolge dal primo pomeriggio fino a notte fonda, e propone ogni anno gli artisti più interessanti e rappresentativi del panorama attuale, sia italiano che straniero, che si alternano su due palchi gemelli, Molinari stage e S/A stage. Un’organizzazione impeccabile che trasforma questi due giorni in una grande festa in cui lasciarsi trasportare in un luogo fuori dai confini di geografia e tempo, all’insegna della musica, della libertà e dell’innovazione.
Questa, in ordine sparso, la line up completa dell’edizione 2024: gli italiani Cosmo, MACE, Motta, Marco Castello, Daniela Pes, Emma Nolde, Whitemary, RBSN, Marta Del Grandi, Bobby Joe Long’s Friendship Party, Gaia Morelli, Anna and Vulkan, si sono esibitì al fianco di grandi nomi internazionali come Viagra Boys, The Blaze, Acid Arab, Kiasmos, Bar Italia, Barry Can’t Swim, Mount Kimbie, Film School, Samà Abdulhadi, Fat Dog, Jersey.
Noi vi raccontiamo alcuni dei momenti che hanno catturato maggiormente la nostra attenzione.
Giorno 1 – La danza delle emozioni
Dopo una pioggia incessante, il cielo ha iniziato a schiarirsi durante l’esibizione di Marco Castello, il polistrumentista siciliano che ci ha regalato un assaggio del suo cantautorato pop-ironico, spolverato di jazz e funk. Castello riesce a fondere suoni vintage e liriche taglienti con una dolcezza nascosta che viene fuori come una lacrima non richiesta durante i momenti più intimi. In questa età social, dominata da pose e narcisismi, Castello resta uno di quei rari fenomeni che riescono a crearsi un seguito sincero lontani dai riflettori mediatici. Il suo mondo fatto di racconti ironici della quotidianità sembra uscito da una pellicola d’autore, ed è come un balsamo di gioia curativa che ci riscalda dall’acquazzone appena preso.
Spazza via le nuvole e qualsiasi altro riferimento spazio-temporale la musica ultraterrena di Daniela Pes. Sacerdotessa dietro la consolle, è minuta e immensa come una montagna. La sua elettronica, ancestrale e futuribile, ci fa viaggiare verso un mondo sonoro tutto suo. Un’esperienza ipnotica in cui il pubblico è stato immerso in universo incantato e alieno. Acclamata a giusto titolo dalla critica, la sua musica ha preso vita sotto il cielo di Roma, trascinando tutti in uno stato mentale vicino alla trance o ai riti tribali. Non c’è niente di convenzionale nel suo sound, che proprio per questo cattura inesorabilmente. Un’esploratrice sonora che costruisce ponti tra passato e futuro, tra umano e tecnologico, tra musica d’avanguardia e impatto sinfonico, senza alcun timore di osare. Le sue treccine volteggiano nell’aria come code di scorpione pronte a pungerci l’anima. Un incantesimo che ha coinvolto tutti e da cui nessuno sembra volersi destare
Ci pensa il collega Cosmo, sul palco a fianco, a scuotere gli animi dei presenti con una scarica adrenalinica che come una scintilla ha acceso l’inizio di una lunga notte di festa. Accompagnato dall’inseparabile artista Pan Dan, ha dato vita a una grande esperienza comunitaria, a metà tra l’indie-pop, il cantautorato di impegno e protesta e il rave party delirante, trascinando tutti “sulle ali del cavallo bianco”. Piume, festa, danze, tanta luce e tanta oscurità, fumi e paillettes in cassa dritta per inneggiare a questa trance collettiva.
C’è uno switch sul programma e si esibisce per primo Barry Can’t Swim (nome d’arte di Joshua Mainnie) il produttore di musica elettronica e dj scozzese che ha stupito la stampa guadagnandosi numerosi premi e posizioni top nelle liste con il suo album di debutto When will we land? E qui di atterrare non se ne parla, visto che siamo appena decollati e la sua dance elettronica sofisticata ci fa volare alto.
Si fa dunque aspettare, ma è un’attesa meritata, il dj set di Mace, uno dei producers più interessanti della scena Italiana, capace di mettere la firma su pezzi orechhiabilissimi come su pure sperimentazioni psichedeliche. Ci aspettavamo forse un po’ di carica in più ma il suo set è ricco di sonorità e mai banale.
Giornata due: dal cantautorato al punk apocalittico
Il secondo giorno del festival ha offerto una miscela ancora più esplosiva di generi e sensibilità. La delicatezza e l’introspezione del cantautorato italiano hanno trovato espressione in due esibizioni particolarmente intense: i toscani Emma Nolde e Motta. Il clima ci ha graziati e siamo riusciti a gustarci tutte le esibizioni.
La sorpresa del giorno sono stati i Fat Dog, formazione inglese, nata e cresciuta in piena pandemia e portata sotto i riflettori grazie al passaparola. Il loro approccio alla musica è di vecchio stampo, un concentrato caotico di punk, dance e techno, e in poco tempo sono riusciti a diventare una realtà di culto. Anche in questa occasione il loro sound sporco e multiforme, quasi disordinato, ha disorientato e coinvolto il pubblico con le sue venature irresistibilmente pop.
Emma Nolde, astro nascente che nonostante la giovane età possiede una profonda raffinatezza, ha portato sul palco la sua capacità di parlare direttamente all’anima, con testi che sono confessioni intime e musiche che oscillano tra la fragilità e la forza. Il suo live è minimale ma intenso, bilanciando sound elettronico e chitarre rock. Un momento in cui tutto si è fatto silenzio e ognuno ha potuto ascoltare le proprie emozioni riflesse nelle sue parole.
Bobby Joe Long’s Friendship Party , progetto artistico unico nel suo genere, nato nel 2015 e autodefinitosi “una band dramasynthcoattowave di Roma Est”. Noti tra i fan anche come l’Oscura Combo Romana, il gruppo di Henry Bowers è un piccolo culto nella scena della Capitale, capace di mescolare sapientemente darkwave e sonorità anni Ottanta con cinema e letteratura d’altri tempi. Testi intensi, farciti di riflessioni e citazioni, attorno ai quali si cuce un suono che rievoca gli anni ’80, non quelli delle hit elettro-plasticose, ma quelli più oscuri e colti, dei veri sotterranei culturali dell’epoca.
È stato poi il turno dei londinesi Bar Italia, minimalisti e ipnotici, che hanno portato una carica post-punk di notevole potenza ipnotica anche grazie alla danza in cerchi concentrici della cantante Nina Cristante, oggi di casa a Roma. Intimisti, ma altrettanto incisivi, hanno fatto breccia con le loro chitarre sature e le atmosfere lo-fi che hanno avvolto il pubblico come una coltre di nebbia. I Bar Italia non hanno bisogno di grandi discorsi o pose sceniche: la loro urgenza è tutta nella musica, che ti prende l’anima e non ti lascia andare
Merita un capitolo a parte Motta che con la sua carica emotiva ha lasciato un segno indelebile su tutti i presenti. L’esordio in solo al pianoforte, illuminato di rosso nel buio della sera, è stato il preludio a questo live spiazzante, carico di energia e di emozione. Motta non canta solo, trasforma ogni nota in un’arma, ogni testo in un manifesto di resistenza intima. È come se avesse preso il meglio del cantautorato italiano e l’avesse infuso di energia rock, creando un mix al tempo stesso delicato e devastante. Se in studio ti conquista, dal vivo non ti lascia scampo e ti travolge.
Si passa poi all’altro palco, per il delirio Viagra Boys. Sebastian Murphy, gonfio di birra, con tatuaggi che gridano “loser”, ma che raccontano di un perdente d’élite, è capace di disintegrare l’idea di mascolinità tossica con una risata di scherno. Un frontman che si porta dietro tutta la desolazione esistenziale del post-punk, la loro esibizione è come un treno deragliato che non puoi smettere di guardare – anche se sai che finisce male. La band svedese ha messo in scena una satira tagliente della società contemporanea, fatta di corpi deformati, di losers esistenziali e di una ribellione che è più sciatta che eroica. I Viagra Boys sono un pugno in faccia, un improbabile incrocio tra i Black Flag e i Village People, e mentre il loro sound ti travolge capisci che non stanno suonando per te, stanno suonando contro tutto.
A calmare le acque, il mix shoegaze-elettronico dei Mount Kimbie che sono riusciti a portare un po’ di respiro in questo panorama surreale, permettendo al pubblico di lasciarsi andare in un limbo di suoni eterei e nostalgici. Ma la loro indietronica con guizzi new wave non è stata solo uno sfondo, ma una perfetta transizione verso il live esplosivo di Whitemary, già vista alle tastiere con Motta, e al caos festivo che avrebbe seguito fino a notte fonda con i dj set di Sama’ Abdulhadi e degli Acid Arab.
Si conclude così questa costruzione sonora, un’architettura fatta di contrasti e armonie inaspettate ed evocative, sostenuta dai due grandi palchi che hanno accolto alcuni tra gli artisti più significativi e rappresentativi del panorama contemporaneo. Con l’estate che giunge al termine, non c’è bisogno di cedere alla malinconia autunnale: è Spring Attitude a promettere un orizzonte di eterna primavera, regalando al pubblico una dimensione di gioia senza fine.
Articolo e foto di Ginevra Baldassari
Un grande ringraziamento a Ilenia di GDG Press