Da oltre 10 anni sulla scena musicale, Rocco Hunt è salito alla ribalta per la sua partecipazione al Festival di Sanremo 2014, con “Nu juorno buono”, un brano di denuncia, dedicato alla terra dei fuochi che gli è valso il primo posto nella categoria “Nuove proposte”. All’Ariston è tornato anche nello scorso febbraio con “Wake up”, un pezzo più commerciale e con temi meno impegnati. Ma il grande teatro sanremese lo ricorderà per la cover “Tu vuo’ fa’ l’americano” che ha fatto ballare tutta la sala, con un’interpretazione trascinante ed incredibile. Rocco di professione fa il rapper. Nato alla periferia di Salerno in una famiglia solida ma con pochi mezzi, l’artista ha inseguito dall’età di 11 anni il suo sogno muovendosi nella vivacissima scena napoletana costruendosi metro su metro la sua credibilità anche grazie al web, gare di free style e a numerose collaborazioni. Dai suoi testi traspare la voglia di farcela, l’orgoglio del lavoro e della fatica, ma anche il rifiuto di meccanismi corrotti e, soprattutto, un monito ai suoi coetanei, quasi il consiglio di un fratello, perché una vita migliore è possibile. In occasione del suo concerto al Gru Village l’abbiamo incontrato per rivolgergli alcune domande. Ecco cosa ci ha detto di sé.
Cosa spinge un ragazzino di 11 anni a fare il rapper?
«Sicuramente l’ambizione e la fame. Quando ero bambino vedevo che il tessuto sociale non mi dava grandi prospettive. Così mi sono rimboccato le maniche e ho cercato la mia strada. Per fortuna l’ho trovata nel rap, nell’hip hop e, di conseguenza, nella musica».
In una terra dominata dai “neomelodici” ha scelto un qualcosa di totalmente diverso…
«Da piccolo ero molto creativo. Il rap mi è entrato nelle vene all’improvviso e non è più uscito. Diciamo che è stato lui a scegliere me».
Sei anche un campione di free style. Ci spieghi come è nata questa passione. Ti prepari qualcosa prima dei contest?
«Quando andavo a scuola, molto spesso improvvisavo delle canzoni per i miei amici. Era solo un gioco ed un divertimento in classe. Successivamente mi sono avvicinato al mondo del free-style e la cosa mi ha entusiasmato. Non mi ritengo un campione, ci sono colleghi molto più bravi di me. Diciamo piuttosto che me la cavicchio. Quanto a prepararmi prima, la mia risposta è no. Tutto viene sul momento, se no che improvvisazione sarebbe? Appena arriva l’input parti e non ti fermi più».
Sei stato a Sanremo due volte. La prima hai portato un brano dedicato alla Campania e alla terra dei fuochi, ti aspettavi di poter trionfare con uno stile assolutamente poco congeniale per il Festival. Ti aspettavi un risultato simile?
«Non mi aspettavo di vincere, perché chi va all’Ariston deve rimanere con i piedi per terra. Diciamo che la vittoria è stata una grandissima soddisfazione, sia per i temi trattati sia per il genere che ho portato su quel palco».
Una soddisfazione che ti ha riportato sul “luogo del delitto” anche quest’anno…
«Esattamente sono ritornato perché era comunque una grande vittoria essere in quel posto, che ti regala tantissima visibilità».
Un obiettivo l’hai comunque raggiunto: hai fatto ballare l’Ariston
«Quando ho proposto la cover di Renato Carosone “Tu vuo’ fa l’americano” è successa una bella cosa, mi sono sorpreso e molto divertito».
Perché ha scelto proprio quel brano?
«Volevo far capire alla mia generazione che Napoli ha un vastissimo repertorio sonoro. Il brano di Carosone è probabilmente uno dei brani più famosi al mondo, così ho voluto omaggiare la tradizione partenopea trasmettendo un messaggio molto semplice: “senza passato non ci sarà mai futuro”.
E’ la prima volta che ti esibisci dal vivo dalle nostre parti, anche se hai fatto moltissimi “show case” per lanciare i tuoi dischi. Cosa ne pensi dei fan piemontesi?
«Alla fine il pubblico è caldo esattamente come quello di Napoli. In fondo è difficile trovare un piemontese doc, visto che la vostra regione ha vissuto un intenso flusso migratorio dal sud, ai tempi del boom industriale. Quella gente, che mi piace definire i “conterranei” si è trovata bene non è più ritornata indietro».
Nel tuo repertorio spesso racconti storie legate alla tua terra. Ti stupisce avere successo un po’ dappertutto?
«L’Italia, pur essendo un Paese relativamente piccolo, ha tantissimi spaccati, degni di essere raccontati. Napoli e la Campania è uno di questi, ma credo che sarebbe lo stesso se raccontassi altre storie. Diciamo comunque che questa attenzione per i temi che affronto fa enorme piacere».
Torino ed il Piemonte sono terra di rapper, probabilmente il movimento italiano è nato proprio di qui. Come spieghi questo fenomeno?
«La scena rap è nata negli anni ’80 e si è affermata in tutte le città del nord. In settentrione ci sono stati presupposti, anche economici, affinché si potesse sviluppare e trasformarsi in un possibile lavoro per molti artisti. Penso che anche al Sud ci siano ottimi esempi di questa scuola, ma non essendoci soldi, non sono riusciti a progredire».
Non hai mai partecipato ai talent show. La tua è stata una scelta?
«Visto il genere che propongo non mi sono mai ritenuto adatto per questo tipo di manifestazioni. La mia opinione sui talent è negativa, perché sono trasmissioni che illudono i ragazzi, li portano al successo nel giro di un paio di mesi e poi, dopo nemmeno un anno, li buttano nella spazzatura»
Però hai partecipato a Ballando con le stelle..
«Sì è vero, ma è stata l’esperienza di una sera, un gioco divertente e rilassante».
Foto e testo di Vincenzo Nicolello