Lo scopriamo quando siamo ancora dormienti. Oggi, 11 novembre 2016, il poeta Leonard Cohen se n’è andato, per sempre. Se ne presagiva la fine nelle sue ultime interviste, in cui, conscio della propria situazione, aveva compreso che le sue parole riecheggeranno per sempre, mentre intona un evidente “sono pronto”. Ecco allora il nostro tributo, la recensione dell’ultimo disco You Want It Darker, uscito lo scorso mese e già album cult.
Album: You Want It Darker
Etichetta: Columbia Records
Distribuzione: Sony Music
82 anni e vari problemi fisici attenuati dall’utilizzo della marijuana terapeutica e dall’amore di un figlio (Adam Cohen) che gli pubblica il nuovo disco. In mezzo, la perdita dell’amata compagna. Questo è in sintesi il mondo di Leonard Cohen, cantautore che al 14esimo (e ormai ultimo) disco in studio regala ancora struggenti parole e liriche di colossale intensità emotiva.
Un opera monstre che raccoglie pensieri sulla vita e sulle emozioni che la contraddistinguono, accarezzando però quel senso di rassegnazione che solo gli uomini come Cohen possono avere dinanzi all’età che avanza e ti minaccia ogni giorno.
Il singer canadese ha una voce inconfondibile, che ha reso leggendaria anche la sigla della meno acclamata seconda serie tv True Detective (in cui canta una torbida Nevermind), per poi rimanere alla finestra con quel suo inconfondibile odore di nicotina che accorcia le sue giornate e allunga i suoi pensieri. You want it darker rappresenta quindi per Leonard Cohen nuova linfa vitale, consapevoli che potrebbe essere l’ultima stazione di una grande carriera, di cui vi risparmio gli episodi più significativi solo per non cadere nella retorica autobiografica. E la titletrack, all’inizio, è già un pezzo evocativo e mistico, costruito su un groove di spessore e un lucido tour nei meandri della religiosità nascosta del nostro autore, musicalmente impreziosita dal coro della Sinagoga di Montreal (Shaar Hashomayim Synagogue Choir). Henani Henani, ripete Cohen, pronto alla sfida conclusiva col suo destino.
La successiva Treaty non si discosta dalla traiettoria e dalla storia musicale di un autore che indaga su amore e rapporti umani. Coda di pianoforte e voce accogliente che ritornano poi nell’ultima traccia dell’album, con una versione per solo quartetto d’archi, conclusa dalle secche parole che echeggiano alla firma di un trattato, punto finale dell’amore e dei suoi tormenti. Dopo le ambizioni ambigue figlie della vecchiaia di On the level, è Leaving the table a far breccia nei nostri cuori, anche grazie ad un assolo di chitarra che fa da corrimano all’idea di lasciare tutto, ribaltando elegantemente il tavolo a cui siamo seduti.
Ma la speranza c’è e va ricondotta all’amore, If i didn’t have your love. Essere reali grazie al più signorile dei sentimenti, con una mano tesa alla compagna che non c’è più e che veglia sui dolori mentali di un uomo inquieto. I tormenti ritornano in It seemed the better way, mentre è Steer your way a metabolizzare l’idea del coraggio quando il cuore si addentra nelle tenebre: steer your heart past the pain that is far more real than you (dirigi il tuo cuore oltre il dolore che è molto più reale di te). È il trionfo del Leonard Cohen poeta, amante e combattente, che vede la luce e corre insieme a lei. R.I.P.
1.You Want It Darker
2. Treaty
3.On the Level
4. Leaving the Table
5.If I Didn’t Have Your Love
6. Traveling Light
7.It Seemed the Better Way
8. Steer Your Way
9. String Reprise / Treaty
Testo a cura di Andrea Alesse