Gué Pequeno, pseudonimo di Cosimo Fini (Milano, 25 dicembre 1980), è un rapper e produttore discografico italiano, membro del gruppo rap Club Dogo. In gruppo o da solita ha fatto la storia della scena italiana. Dopo anni di carriera ha scelto di affrontare la carriera editoriale, pubblicando una biografia, che ha presentato in occasione di Collisioni Festival a Barolo Ecco cosa ha raccontato.
Guè è vero che hai detto che se non avessi fatto il rapper saresti diventato un gangster?
«Onestamente non ero portato a fare il gangster, anche se in effetti mi ritrovavo in una situazione borderline ed ero inserito in un contesto di persone pericolose. Posso dire che quel periodo mi ha ispirato tanto al punto di essere portavoce di un ambiente di strada. Ho sempre raccontato le cose come stavano e ho rispettato un codice comportamentale che vale ancora adesso».
Rispetto ai tuoi inizi fare il rapper oggi più facile?
«Certo è più semplice. Ma non voglio essere frainteso. Ai nostri tempi forse serviva qualche raccomandazione. Oggi con Internet sei in grado di autoprodurti e se sei forte alla fine vieni fuori. Certo poi hai bisogno di qualcuno che ti spinga e magari di qualche radio che faccia passare i tuoi pezzi»
Le radio sono ancora importanti?
«Il mercato è molto cambiato negli ultimi tempi. Oggi impera Spotify, dove ai primi posti ci sono quasi esclusivamente rapper. Se chiedete a mia madre chi siano quegli artisti lei risponderà “non lo so”, semplicemente perché lei ascolta la radio e quei pezzi magari non passano. Quel mezzo di comunicazione è molto importante perché ti consente di diventare nazional popolare ed essere conosciuto dalla gente comune. La radio ti istituzionalizza».
Che mercato c’è oggi?
«Oggi abbiamo un mercato dominato dai giovanissimi. Probabilmente non esiste più la musica per i bambini ed allora i più piccoli ascoltano artisti hip hop e rapper. Francamente la cosa mi preoccupa, perché i temi trattati molto spesso non sono adatti a fasce di età così basse».
Hai scritto il libro “Guérriero. Storie di sofisticata ignoranza” ci sono stati passaggi difficili da scrivere?
In realtà non ho avuto particolari difficoltà. Certo il manager mi ha consigliato di togliere alcuni tratti più scabrosi, forse non adatti alla gente. Ecco forse la difficoltà più grande è stata proprio questa: tagliare parte del materiale scritto»
Anche a scapito della tua schiettezza?
«Certo ho parlato delle mie scelte, della mia carriera ed anche dei miei errori. La mia sincerità a volte mi ha ostacolato. Se mi fossi comportato diversamente oggi forse sarei più ricco».
Che importanza ha avuto la tua famiglia nella tua carriera?
«Non mi hanno certamente spinto. Quando ho scelto d fare il rapper ho accompagnato la carriera con lavori, sia leciti che illeciti. Quando poi ce l’ho fatta è stata una bella rivincita anche nei confronti dei miei genitori a cui ho dimostrato di essere riuscito a raggiungere il successo?»
Qualcuno ti ha smontato?
«Questo è il mondo. Anche se fai il panettiere trovi qualcuno che ti scoraggia. Quando ero ai tempi dei Club Dogo avevamo piuttosto chi ci sfruttava. Eravamo sottopagati. Oggi i nuovi rapper hanno contratti eccezionali. Noi giravamo con cinquanta euro e lo skateboard, oggi sono ricchi, belli e famosi, girando in limousine. Per fortuna avevamo una grande autostima e abbiamo insistito, inventando un nuovo mercato».
Sei stato il pigmalione delle nuove generazioni..
«Si è trattato di pura coerenza. Da piccolo ero ispiratissimo dai grandi artisti e così anche io ho creato un’etichetta discografica indipendente (Tanta roba, ndr) per promuovere i giovani. Tra i tanti sono passati Fedez, Ensi e Ghali che ai tempi suonava per un gruppo interrazziale fortissimo che si chiamava Troupe D’Elite».
Oggi hai smesso con questa attività?
«Certo perché preferisco essere amico dei colleghi, piuttosto che avere un rapporto di lavoro. È un po’ come avere tante fidanzate che pretendono. A parte gli scherzi, il lavoro del manager è davvero ingrato. Se un artista non funziona è colpa di chi lo guida. Se invece ha successo nessuno verrà mai a dirti grazie. Quindi l’etichetta è un vero mal di testa a cui rinuncio, anche perdendo una fonte di guadagno».
Oggi si parla tanto di bullismo. È vero che anche tu ne sei stato vittima a scuola?
«Non propriamente. Non sono mai stato bullizzato, anche se i miei problemi agli occhi hanno portato i miei compagni a chiamarci lo sguercio. Ironia della sorte proprio quel soprannome è diventato il mio nome di battaglia ed infatti oggi mi chiamo Gué».
Anche se il mondo che frequenti un po’ porta a bullizzare?
«Infatti. Oggi tutto è basato sull’immagine, chi non si attiene e finito. Ringrazio il cielo di non avere ancora un figlio, perché questo mondo social è diventato davvero duro da sopportare».
A proposito di social tu sei molto attivo in questo campo…
«Ma certo. Così come lo sono molti miei colleghi. Il mio spazio social è aperto a tutti, ma se qualcuno mi dice qualcosa io voglio rispondere. Si tratta di un gioco, intendiamoci, di uno svago divertente».
E i numeri ti interessano?
«Come non potrebbero. È una malattia moderna lanciata da Fedez. Controllare i quanti like, quante visualizzazioni è importante, ma non sono così competitivo. Non sono nato per contare, se no avrei fatto il contabile. I veri numeri che contano sono quelli delle vendite, delle certificazioni».