Artista: Gazebo Penguins
Album: Nebbia
Etichetta: To Lose La Track – Ufficio stampa: Sporco Impossibile
Le domande esistenziali sono il nostro alter ego quotidiano. Centimetri, metri, e forse chilometri di parole inutili si aggrovigliano quotidianamente tra social network e versi umani. Eppure la risposta non si trova. Ci provano i Gazebo Penguins, con un album nuovo che esce oggi 3 marzo. Il titolo, Nebbia, è già padrone della scena, consumando da subito l’idea di una musica che si fa dissolvenza con chitarre noise e spirito emo e/o post HC. Un ragionamento sulle relazioni, ma anche una cruda manifestazione di come la vita si dissolve spesso senza senso, tra pensieri che si perdono nel l’acclamazione troppo generosa di profili social, o nella perdita di una calma bucolica dentro e fuori di noi.
Mi vengono in mente certe scene sonore dei commilitoni Fine before you came, oppure, andando a ritroso, certe catapulte sonore che per me significano i Nuvola blu e la Blu bus community dei Kina, con tanta attenzione ai suoni d’oltreoceano.
Dopo due album, Legna e Raudo, i Gazebo Penguins diventano quattro, evolvendo verso suoni meno taglienti è più orecchiabili, senza perdere però il peso delle liriche riflessive e introspettive. Un passo in avanti per una band che si divide tra Correggio e Zocca, e dall’Emilia è partita per oltre 250 concerti dove capita e dove c’è posto per slanci emozionali e maniglie alle porte aperte degli Husker Du.
“Ciò che conta è il processo, non il prodotto”, è una frase attribuita a Duchamp, che c’entra molto col piglio che il gruppo dimostra in nove pezzi dai riff lisergici, come nella ripresa sonora che in Febbre sostiene una canzone che poi accoglie fragili percorsi amorosi.
La dolce sconfitta e i rapporti sono il pensiero chiave nella titletrack Nebbia, stretta tra un ripetersi di parole tra il solito disteso saliscendi di chitarre, con un’attrattiva pari all’aplomb scenico dei desideri di Erik Gandini nel suo viaggio nella solitudine svedese (Swedish theory of love, se non lo avete fatto, vedetelo).
Tra le (emo)poesie di strada dei nostri non mancano le buone intenzioni di Scomparire, in cui la melodia ha i contorni di una passeggiata sui carboni ardenti.
Dopo un mantra solo strumentale (Fuoriporta) impossibile non perdersi nella ricerca dei testi di Porta, sorta di murales sfumato con vista mondo interdetta.
Dopo la carica e la tensione di Atlantide, poi, inizia un ipnotica combinazione di chitarre sfuggenti e di batteria che in Pioggia conduce alla dolce sconfitta messa in note. Lontano dalla motosega di Legna, regna ora un torpore esistenziale in cui si incrocia l’eterno dilemma dell’umana condanna al contatto.
Andrea Alesse